Yara Gambirasio: ecco perché è stato Bossetti l’assassino

(Websource / archivio)

La Corte di Cassazione nega che vi possano essere dubbi sulla colpevolezza di Massimo Bossetti. Una prova inconfutabile dice che non può che essere stato lui a uccidere Yara.

Il dna di Ignoto 1 è quello di Massimo Bossetti, pertanto l’ipotesi del “complotto” è del tutto illogica. Questa l’argomentazione con cui la Corte di Cassazione risponde a chi sostiene che l’uomo condannato per il terribile assassinio della 13enne Yara Gambirasio sia in realtà innocente. “La probabilità di individuare un altro soggetto con lo stesso profilo genotipico”, evidenziano gli ermellini nelle motivazioni della sentenza che ha comminato l’ergastolo al muratore di Mapello, equivale a “un soggetto ogni 3.700 miliardi di miliardi di miliardi di individui”. E “i giudici di merito hanno correttamente affermato che il profilo genetico è stato confermato da ben 24 marcatori”, evidenziando “a maggiore tutela dell’imputato, che la certezza dell’identificazione è particolarmente solida”, in quanto le linee guida scientifiche individuano un soggetto “con l’identità di soli 15 marcatori”

Insomma, non ci fu alcun complotto e non c’è ombra di dubbio che il Dna sugli indumenti di Yara Gambirasio appartenesse a Massimo Giuseppe Bossetti. “Numerose e varie analisi biologiche effettuate da diversi laboratori – rilevano ancora i giudici- hanno messo in evidenza la piena coincidenza identificativa tra il profilo genetico di Ignoto 1, rinvenuto sulla mutandine della vittima, e quelle dell’imputato“. L’evidenza scientifica ha “valore di prova piena”. In 155 pagine la Cassazione smonta i venti motivi di ricorso della difesa, che sollevava diverse obiezioni, contestando in particolare la prova del Dna, la “catena di custodia”, i kit utilizzati. La Cassazione biasima inoltre i “reiterati tentativi di mistificazione degli elementi di fatto”, con iniziative “amplificate da improprie pubbliche sintetizzazioni”.

Le obiezioni alla sentenza Gambirasio smontate dalla Cassazione

Rispondendo all’obiezione degli innocentisti sulla catena di custodia, la Cassazione afferma che il Dna di Bossetti “non era presente nelle banche dati all’epoca disponibili e che sono state ampiamente e ripetutamente consultate proprio allo scopo di identificare Ignoto 1, sicché è impossibile ipotizzare una contaminazione dei reperti prelevati all’inizio del 2011 con il profilo dell’ imputato che è stato acquisito soltanto tre anni dopo”. E riguardo alla richiesta della difesa di una perizia, i giudici spiegano che vi si ricorre in caso di “evidenza dell’utilizzo di una metodica errata o superata e dell’esistenza di un metodo più recente e più affidabile”, e “nulla di tutto questo emerge dagli atti”.

Inoltre, “visto che la difesa ha utilizzato l’argomento anche in sede extra processuale”, la prima sezione penale della Cassazione chiarisce che “la genericissima ipotesi della creazione in laboratorio del Dna dell’imputato, oltre ad appartenere alla schiera delle idee fantasiose prive di qualsiasi supporto scientifico e aggancio con la realtà, è manifestamente illogica. Se si volesse seguire la tesi complottista legata anche alla necessità di dare in pasto all’opinione pubblica un responsabile, è evidente che – ammessa solo per ipotesi la reale possibilità di creare in laboratorio un Dna – si sarebbe creato un profilo che immediatamente poteva identificare l’autore del reato senza attendere, come invece è accaduto, ben tre anni”. E altrettanto “fantasiosa” viene giudicata l’ipotesi di una contaminazione volontaria da parte di terzi prima del ritrovamento del corpo della vittima”. Caso chiuso, insomma. Salvo ulteriori colpi di scena.

EDS

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