Perché soffriamo più per Parigi che per Beirut?

(Screeenshot YouTube)
Il pianista che davanti al Bataclan ha suonato Imagine di John Lennon (Screeenshot YouTube)

Dopo gli attacchi terroristici a Parigi e le tante manifestazioni di solidarietà, c’è stata una strana reazione di rimprovero. Rimprovero per esserci emozionati, addolorati per Parigi e non aver fatto altrettanto per i morti – ad esempio – di Beirut, dove appena due giorni prima di Parigi un attentatore si è fatto esplodere in un mercato provocando 40 morti.

Un rimprovero contro la nostra ipocrisia, contro il nostro razzismo latente, che si è mosso dai social network – in cui la possibilità offerta da facebook di modificare la foto del proprio profilo con i colori della bandiera francese ha suscitato un’ondata di sdegno in quanto lo stesso non è stato fatto per altre nazioni colpite da stragi terroristiche –  ad autorevoli giornalisti che dalle prime pagine hanno tuonato rimproveri.  Aryn Baker ha scritto su Time: «Qualsiasi siano le ragioni – e ce ne sono molte – per le disparità di reazioni, il messaggio che viene trasmesso da questi eventi gemelli è che certe vite valgono più di altre». Oppure AntiMedia.org dice: “America: la tua solidarietà con Parigi è sgradevolmente fuori luogo”.

Eppure tutto ciò non ha senso. Non ha senso il rimprovero: non è una questione di razzismo stare più male per i morti di Parigi che per quelli di Beirut. Ci sono delle ragioni umane, semplicemente, banalmente umane, per questa differenza. Piangete di più per un vostro amico o parente che muore di cancro o per uno sconosciuto che muore di cancro?  E’ forse razzismo questo? Dovremmo forse sentirci in colpa per questo?

I morti di Parigi sono nostri amici. Per questo piangiamo di più. E non perché siano bianchi, ma semplicemente perché c’è una nostra totale immedesimazione, c’è affinità con Parigi. I parigini fanno la stessa nostra vita, prendono la metro, vanno ai concerti, mangiano ai ristoranti e seguono le nostre stesse band musicali. A Parigi vivono poi nostri conoscenti e amici. Essere addolorati per quanto successo a Parigi, non significa non provare dispiacere per i morti di Beirut o non avere un’etica o una morale. E’ come rimproverare qualcuno di soffrire per la morte di un proprio caro quando ci sono migliaia di morti ogni giorno.

E poi c’è l’aspetto dell’imprevisto, di tutto quello che abbiamo sottovalutato. Parigi non è – o almeno non era – una città di una Paese in guerra, martoriato da anni da attentati, non avevamo la percezione che Parigi potesse essere un luogo così insicuro. Lo abbiamo sottovalutato. E questo ci spinge a chiederci: cosa altro abbiamo sottovalutato? Quindi, a questo punto, anche casa nostra è insicura?

Quando un nostro concittadino muore dall’altra parte del mondo la notizia arriva subito nel nostro Paese ed ha un forte impatto emotivo. Cioè è inevitabile in quanto per quell’uomo, sebbene non lo conosciamo personalmente, abbiamo un’affinità. E’ come noi. Ha il nostro stesso background, scatta con lui inevitabilmente subito un’affinità. Abbiamo un legame. Anche solo per il fatto di parlare la stessa lingua.

La stessa affinità che abbiamo per Parigi. E non è certo una colpa. Una persona è fatta nei suoi affetti, nelle sue affinità a cerchi concentrici: dalla famiglia al suo Paese. Con diversi gradi di affinità ed empatia. Il dolore poi è qualcosa di personale che non si può giudicare, né quantificare, né dire quando è giusto o sbagliato.

Non può e non deve essere un problema, un capo d’accusa, provare del dolore, emozionarsi, soffrire per qualcuno per cui proviamo empatia. Il problema sarà quando non lo proveremo più affatto. Allora lì sì, l’umanità non esisterà più.

 

Cinzia Zadro
Direttore Responsabile ed Editoriale

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