Luciana Romoli chi è: età, storia e vita della bambina partigiana

Scopriamo la storia di Luciana Romoli, la donna che da bambina ha aiutato i partigiani a liberare l’Italia dal nazi-fascismo.

Luciana Romoli oggi è una signora di 90 anni che vive nella sua casa di Roma in serenità e che, di tanto in tanto, racconta in giro per l’Italia la sua incredibile storia di sopravvivenza. Sì perché, quella che potrebbe sembrare una donna qualsiasi, ha vissuto un’infanzia segnata dalla guerra, in cui essere bambini non era possibile e tutti temevano di poter morire da un momento all’altro. La sua è una storia di rara umanità, di solidarietà tra uomini, donne e bambini contro un nemico comune, contro un invasore che voleva soggiogare il mondo alla propria visione distorta della realtà e dell’umanità.

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Nata nel 1930 a Roma, Luciana è stata catapultata a soli 8 anni nella realtà della guerra. Presto amici, parenti e semplici vicini di casa sono partiti per un conflitto che non aveva uno scopo né una ragione di esistere. Chi rimaneva era costretto a soffrire di fame e vivere alla giornata. Poi è arrivata l’occupazione nazista e chiunque non lo fosse era impegnato a liberare la città eterna dal nemico.

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Luciana Romoli: “Nascondemmo bombe tra i carciofi”

In quel periodo la piccola Luciana è diventata una staffetta partigiana. Insieme alla sorella svolgeva compiti importanti per la resistenza, come portare messaggi o consegnare armamenti ai soldati. Quando ne parla la donna lo ricorda come se fosse successo il giorno prima: “L’ambiente in cui vivevo fece sì che anch’io entrassi a far parte della Brigata Garibaldi. Facevo la staffetta. Portavo chiodi a tre punte ai compagni del Flaminio: servivano a bucare le gomme dei blindati tedeschi. Non conoscevo mai il nome di chi me li dava e neppure quello della persona a cui li consegnavo”.

Nel corso di quelle missioni ha vissuto situazioni limite, come quando dovette portare dei volantini ad un giovane partigiano: “Una volta mi dissero che dovevo far avere alcuni volantini ad un ragazzo dell’università. Dovevo indossare un golfino bianco per farmi riconoscere. Incontrai Massimo Gizzio, poi ucciso davanti a me dai fascisti”. La volta in cui rischio maggiormente, però, fu quando gli fu chiesto di portare degli armamenti: “Ero con mia sorella, in bicicletta. I tedeschi ci fermarono sul ponte di Portonaccio e chiesero cosa portavamo. Lei, scherzando, rispose: ‘Bombe a mano’. Mi sentii gelare. Rideva pure lui e ci lasciò passare”.

Anche il giorno della liberazione fu per lei un giorno di dolore e paura, tanto da ricordarlo con un pizzico di amarezza: “Il 4 giugno 1944 lo ricordo eccome! Un giorno di festa, Roma liberata, i tedeschi in fuga. Ma io piangevo. E non di gioia. I soldati del Terzo Reich avevano appena fatto una strage, a La Storta. Avevano trucidato quattordici prigionieri prelevati dal comando della Sipo, la Sicherheitdienst polizei, in via Tasso. Tra loro c’era un cugino di mia madre, Libero De Angelis”.

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