Mamma medico: “Non posso abbracciare mia figlia, serve uno psicologo”

Una mamma che lavora ogni giorno all’ospedale di Cremona ha dichiarato a ‘Repubblica’ che la rinuncia più dura è mantenere la distanza con i figli.

Abbiamo parlato più volte in questi giorni dell’importanza che riveste oggi più che mai l’inesauribile sforzo compiuto dai medici in ospedale. Il coraggio, la voglia di aiutare e l’impegno profuso dal personale medico in questi giorni è ciò che dà speranza ai pazienti ma anche all’intera popolazione. Lo sanno gli italiani che ieri si sono dati appuntamento di sera nei balconi per tributare un applauso a questi eroi che giorno dopo giorno mettono a repentaglio la loro vita per la nostra salute.

Leggi anche ->Bergamo | esplode palazzina | il disastro in piena zona rossa Coronavirus

Repubblica ha intervistato Federica Pezzetti, medico e mamma di 37 anni che lavora nell’ospedale di Cremona, uno di quelli maggiormente messi alla prova dall’emergenza coronavirus. La dottoresse cerca di fare emergere il proprio lato umano, sottolineando i sacrifici che ogni medico sta compiendo a livello personale: “Quando rientro mangio sola, tengo le distanze da mio marito, dormo separata, faccio tanta attenzione. È successo di finire alle tre e mezza di notte, rientrare a dormire, e tornare in ospedale alle otto. Il bacio al figlio lo mandi col pensiero. Ci sono medici che hanno spostato la famiglia dai suoceri per scongiurare rischi di contagio, c’è un neurochirurgo che non vede i figli da tre settimane. È tutto cambiato”.

Leggi anche ->Coronavirus: morto Roberto Stella, presidente dell’Ordine dei medici di Varese

Se vuoi seguire tutte le nostre notizie in tempo reale CLICCA QUI

Mamma Medico: “Quando tutto finirà? Abbraccerò mio figlio”

Rinunciare alle dimostrazioni d’affetto verso il figlio è la cosa più dura per la dottoressa che da 2 settimane circa si trova costretta a mantenere le distanze per il bene del piccolo. Ci sono giorni poi in cui lei e i suoi colleghi si lasciano andare a pianti di disperazione. Si tratta di momenti di scoramento che servono a scaricare tensione e paura: “Si piange soli, di nascosto, quando si è un po’ al limite, magari in una stanza. Ma è un momento e poi si riparte: c’è l’adrenalina, la rabbia, le lacrime”.

La paura non riguarda solo la possibilità di venire contagiati, ma anche e soprattutto quella di poter contagiare i propri cari: “Le precauzioni sono infinite. Ci facciamo forza, ma restano anche tante fragilità: quando sei stanchissimo e vedi arrivare ambulanze di continuo e sai che i posti letto sono al limite, cominci a cedere perché non vedi la fine”. Per evitare che ci sia un crollo psicologico, la dottoressa evidenzia la necessità di uno psicologo col quale confidarsi: “C’è tanto, tanto bisogno di parlare, di sfogarsi. In emergenza, con turni che diventano spesso di 13-14 ore, tra lavoro e pausa ci sono medici che restano dentro anche 34 ore, prima di prendere una boccata d’aria: è logico che così a lungo non si regge, se non c’è un sostegno”.

Impostazioni privacy