Sea Watch, l’esperto: “L’Italia si è comportata bene, l’Europa no”

Carola Rackete sea watch 3
Carola Rackete, capitano della Sea Watch 3 (Getty Images)

Un noto legale di Diritto del Mare analizza la condotta dell’Italia e quella di Olanda ed Europa sul controverso caso della ‘Sea Watch 3’.

Il caso della Sea Watch 3 e del suo capitano, Carola Rackete, sta tenendo banco negli ultimi giorni. E l’opinione pubblica è divisa tra chi ritiene che la 31enne tedesca abbia agito nel modo giusto, mettendo l’importanza di salvare circa 42 vite umane prima di ogni cosa, e chi pensa che abbia invece infranto la legge forzando il blocco navale che si frapponeva fra la sua imbarcazione ed il porto di Lampedusa. Adesso la Rackete rischia l’arresto con una pena detentiva tra i 3 ed i 10 anni, in base alle ultime informazioni. Ci sono in ballo i diritti umani, nell’ambito di una giungla legale che entra invece nel Diritto del Mare, come preciso argomento di cui dibattere. Ed al ‘Corriere della Sera’, nell’edizione online del giornale, parla l’avvocato Paolo Busco, tra i massimi esperti di questa materia e che ha prestato consulenza anche per il caso dei due marò italiani in India. Fornendo una propria opinione da osservatore esterno, e non da avvocato, Busco ritiene che la condotta dell’Italia nel caso ‘Sea Watch 3’ sia stata irreprensibile.

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Sea Watch 3, l’esperto: “Non esiste alcun obbligo di aprire i porti”

“Soccorrere persone in difficoltà in mare è un obbligo prima morale e poi giuridico. Ma in questa circostanza non ravviso alcun impedimento a farlo da parte delle Ong. Il problema riguarda il posto dove sbarcare eventuali naufraghi salvati. E nel Diritto del Mare non esiste l’obbligo di aprire i porti. Uno Stato può decidere in piena autonomia e nel rispetto della legge l’accesso dei suoi porti”. C’è una eccezione: “Riguarda i casi in cui vige un acclarato ed imminente grave pericolo per una imbarcazione. Se rischia l’affondamento, ad esempio. Ma anche qui l’obbligo è di fornire assistenza, non di aprire i porti. L’Italia ha firmato due convenzioni internazionali per le quali un salvataggio debba culminare con l’approdo in porto. La ‘Search and Rescue’ (Ricerca e Salvataggio) e la ‘Safety of Life at Sea’ (Sicurezza della vita in mare), entrambe risalenti agli anni ’70. Ed entrambe non concepite per una situazione come quella attuale. Riguardava prettamente persone che, per un caso o per un altro, si ritrovavano ad essere naufraghe in mezzo al mare”.

“L’Italia ha agito lecitamente, l’Olanda e l’Europa no”

“A quei tempi non si pensava al fenomeno dell’immigrazione. Inoltre se uno Stato non è in condizione di accogliere, allora devono intervenire altri Stati a cooperare. Una cosa che dovrebbe fare l’Olanda, visto che la ‘Sea Watch 3′ batte bandiera di quel Paese, ma che la stessa si rifiuta di fare’. L’avvocato continua. “Se una nave si trova in acque internazionali, vale la giurisdizione dello stato del quale porta bandiera. Come detto, l’Olanda. Una volta entrata in acque italiane, vale poi la giurisdizione italiana. Per questo motivo il blocco è avvenuto al di fuori delle acque del nostro Paese. La condotta italiana è lecita, piuttosto occorre stabilire se lo sia anche quella della comunità internazionale, dal momento che dovrebbe entrare in gioco l’obbligo di cooperare con una gestione condivisa dei salvataggi tra tutti gli Stati. Una cosa che pare proprio non avvenire. Così facendo non si trova soluzione a questo problema importante. E chi ne fa le spese sono i migranti che soffrono e muoiono. L’Europa guarda all’Italia ma dimentica di giudicare prima le proprie mancanze”.

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