Se Chiesa fa rima con impresa: il modello virtuoso della Faac di Bologna

(Websource / archivio)

Un’azienda sana e in utile che fa anche il bene della comunità: ecco il segreto del successo della Faac di Bologna. 

Faac, la nota azienda produttrice di cancelli, è cresciuta in maniera esponenziale da quando è finita in mano alla Diocesi di Bologna, balzando da 1.000 a 2.500 dipendenti in Italia, con un fatturato di oltre 400 milioni di euro l’anno. Non solo: Faac destina ogni anno parte della sua ricchezza al benessere del territorio e dei suoi dipendenti, con assicurazioni per tutti e vacanze per i figli dei dipendenti. Ne ha parlato qualche giorno fa anche Milena Gabanelli del Corriere della Sera.

Un lascito importante che ha dato buoni frutti

La storia è curiosa e ricorda altri tempi, quando era più “normale” lasciare beni in eredità alla Chiesa perché potesse sostenersi e aiutare i poveri. Nel 2012 Michelangelo Manini, figlio unico del fondatore della Faac, Giuseppe, muore ad appena 50 anni, single e senza eredi. Nel suo testamento ha deciso di lasciare il 66% dell’azienda di famiglia all’Arcidiocesi, insieme alle proprietà immobiliari e 140 milioni di liquidità in banca. La parte restante – il 34% – è della società francese dell’automazione Somfy, che per rilevare la quota della Curia di Bologna offre poco più di un miliardo di euro. La Diocesi guidata all’epoca dal Cardinal Caffarra rifiuta. Nel frattempo si apre un contenzioso intrapreso dai parenti di Manini che si concluderà con un accordo datato 7 luglio 2014: la Curia li liquida con 60 milioni di euro, con pagamento a rate. A maggio 2015 viene liquidato anche il socio di minoranza Somfy con uno scambio di azioni. A quel punto, la Faac diventa al 100% i proprietà dell’Arcidiocesi.

Il cardinal Caffarra nomina tre manager a gestire l’azienda: l’avvocato Andrea Moschetti (amministratore delegato insieme ad Andrea Marcellan, manager della Faac), l’avvocato Bruno Gattai e Giuseppe Berti, manager di Luxottica. Ha ufficialmente inizio l’avventura “ecclesiale” della Faac. Nel 2015 succede monsignor Matteo Zuppi succede a Cafarra e conferma gli amministratori, impartendo però delle rigide linee guida, incentrate sull’attenzione al welfare dei dipendenti. Da quel momento ogni lavoratore del gruppo Faac gode di una polizza sanitaria aggiuntiva, mentre i figli dei dipendenti assunti in Italia possono usufruire di tre settimane di campo estivo gratuito. Inoltre, gli utili devono restare in azienda per fare sviluppo, cioè acquisizioni per consolidare il business.

Un “miracolo” da replicare

La differenza tra il “prima” e il “dopo” sta tutta nei numeri: quando la Faac arriva nelle mani della Chiesa è una realtà da 284 milioni di euro di fatturato, realizzato in larga parte in Italia, e un migliaio di dipendenti. L’anno scorso il gruppo ha chiuso i bilanci con zero debiti, un fatturato record di 427 milioni di euro e un utile netto di 43 milioni. Oggi, inoltre, Faac controlla altre 42 aziende sparse per il mondo dello stesso settore, anche grazie alle risorse investite in ricerca e sviluppo (il 4-5% del fatturato, circa il doppio della media del settore), che hanno portato alla registrazione di 43 brevetti innovativi.

E la Diocesi? Riceve un dividendo di 5 milioni di euro con cui finanzia la Caritas diocesana, progetti di sostegno alle famiglie, agli studenti, al lavoro e a progetti di utilità sociale in Italia e nel mondo. Secondo la Gabanelli, alla luce di tutto ciò forse sarebbe il caso di regalare alla Curia di Bologna anche Alitalia, sperando in un secondo “miracolo”. Chissà che qualcuno non ci faccia un pensierino…

EDS

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